“Ovvio” etimologicamente è la cosa che si incontra lungo la via o di persona e che risulta accessibile, alla mano e che non richiede molti sforzi per concedere confidenza.
Andare oltre l’ovvio è la strada che conduce ad ogni ricerca; è la premessa di ogni scoperta.
Il reale si nasconde dietro le spalle dell’ovvio. Per lasciarsi alle spalle l’ovvio bisogna intraprendere i viaggi della scoperta; bisogna rinunciare ad una posizione nota e lasciare che gioia, inquietudine e speranza si facciano strada. Inizialmente non si sa dove andare a cercare e che cosa, si seguono pensieri e intuizioni, ponteggi mentali e poi se si avrà successo, ci si troverà laddove effettivamente ci si trova. Sembra che tutto sia ovvio, si trattava unicamente di rendere esplicito un risultato che già esisteva, come sosteneva Mozart “tutto era già stato composto, ma non ancora trascritto”.
Semplice, sembra tutto semplice, in realtà quando ci si trova di fronte e folgorazioni mentali, queste scaturiscono da un lungo lavorio mentale, da una lunga preparazione mentale; questo non riguarda solo l’artista o lo scienziato, ma ciascuno di noi quando è alla ricerca di una soluzione per i suoi problemi. Per scoprire qualcosa non basta soffermarsi su ciò che appare, bisogna saper andare in direzione contro-intuitiva, capovolgere il senso comune e cancellare i pregiudizi.
Consideriamo la lentezza e la costanza con cui cresce l’albero; solo nella crescita si trovano i fondamenti di ciò che dura e dà frutti. Crescere significa aprirsi alla vastità del cielo e, al tempo stesso, affondare le radici nell’oscurità della terra, “tutto ciò che è solido fiorisce, solo quando l’uomo è, fino in fondo, l’uno e l’altro: predisposto a quanto gli è chiesto dal cielo più elevato e ben protetto nel rifugio della terra che tutto sorregge” (M. Heidegger 1927 trad. it. “Essere e tempo” Milano, Longanesi, 2005)
Sempre per Heidegger “la vicinanza avvicina il lontano e proprio in quanto lontano, la vicinanza conserva la lontananza”. In questo nostro tempo dove la tendenza ad azzerare le distanze spaziali e temporali, non ci distanzia dalle cose.
La fretta di sopprimere ogni distanza non crea e non realizza una vicinanza.
La vicinanza non è una ridotta misura di distanza.
Ciò che è meno distante da noi grazie alla tecnologia, può rimanerci lontano e ciò che è immensamente remoto, può esserci vicino.
Con le connessioni satellitari e con internet, che rende indifferente il luogo da cui parte o arriva un messaggio, tutto diventa caoticamente ed egualmente vicino e lontano, perché una falsa vicinanza non crea una vicinanza e non costruisce un ordine alle cose.
In treno, alla fermata del bus, in metropolitana mediamente otto persone su dieci sono connessi in chissà quale parte del mondo; otto persone su dieci armeggiano con il telefono: sms, mail, whatsapp.
Un cicalare di squilli fa da sottofondo alle persone che non si guardano, che si spingono ma che non si vedono, un rumore che giunge da lontano e che grida il desiderio di ciascuno di essere considerato, di comunicare, di essere in relazione con l’altro, ma al contempo non si è in grado di alzare gli occhi dallo smartphone per incontrare lo sguardo del vicino. Il più delle volte l’altro è un “altro virtuale” nell’illusione di sentirci in comunione, vicini, ma non troppo!
Siamo in grado di reggere una vicinanza? Siamo in grado di condividere?
Siamo tutti circondati da una varietà enorme di oggetti che saturano la nostra vita quotidiana. Oggetti tecnologici, beni di consumo, effetti personali, arredi, suppellettili, oppure oggetti artistici e più marginali proliferano nella nostra esistenza; una quantità enorme di beni che vengono prodotti, consumati, scambiati in modo crescente e senza precedenti, con un’estensione globale, diventano parte integrante dell’identità dell’individuo e della collettività.
I nostri rapporti con gli oggetti sono molteplici, inseriti come siamo in un intreccio di rapporti e di investimenti oggettuali, che contribuiscono a dare consistenza alla nostra identità. L’individuo non coincide, ovviamente, con gli oggetti che lo circondano o ai quali è affezionato, e la sua identità non dipende dalle cose, ma tutti veniamo influenzati dall’idea del possedere un determinato oggetto identificato socialmente come oggetto di “prestigio”, come oggetto che colloca chi lo possiede in posizione socialmente definita di prestigio o a la pages.
Quando decidiamo di acquistare un oggetto, quale bisogno cerchiamo di soddisfare? Proviamo a chiederci: “Perché ti compro?” Ti compro perché mi piaci, perché mi servi o perché mi identifico in te?
Il concetto di identificazione, in questa circostanza, assume valore sociale, nel senso accennato prima, ossia di oggetto che comunica una tendenza, una moda o un prestigio. In questo tempo storico, sono sicuramente gli oggetti tecnologici ad avere un forte attributo di “oggetto di identificazione”, al di là dell’uso e del bisogno reale, veicolano una tendenza, un modo per dire al mondo che possediamo ciò che di meglio offre il mercato.
Ne siamo veramente consapevoli? Siamo consapevoli dei nostri bisogni? Siamo consapevoli delle nostre reali necessità?